UNA MANO (Arbel Yehud)

Nel ventre di questa moltitudine, la mia immagine minuscola e sola. Ogni sguardo converge su di me che ormai non ho più un centro. Soffocata da questa selva di urla inquietanti, il mio esile silenzio tremolante di paura. Lo vedi com’ero felice in quella foto? Oggi torno dall’altra parte della vita. Quel modo di sorridere rimane indietro. Incastonato in un tempo che non sarà più mio. Aldilà di questo muro di corpi, la mia libertà per sempre ostaggio di questa deriva. E nel far ritorno dall’ade, in balia di questa marea che d’ora innanzi infesterà i miei giorni, una mano. Una mano. Solo una mano tra mille altre mani. Solo questa che tiene stretta la mia. Barlume di umanità insperata. Questa mano senza un volto. Senza un nome. Questa mano che non mi lascia un attimo, non per trattenermi in prigionia ma per restituirmi alla libertà, mi passa sotto il braccio, mi rasenta il cuore. Le sue dita incrociate alle mie. Questa mano è una debole voce nell’assordante frastuono della calca. Eppure, è l’unica che veramente riesco ad ascoltare nel bisbigliarmi “coraggio Arbel, tutto questo sta per finire, solo pochi passi ancora, tra un po’ ti lascerò andare, abbi cura di te e, se puoi, perdonami”.

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