Entrò in casa come se cercasse un luogo nel quale mettersi al sicuro. Le piaceva immaginare che quella porta fosse un portale che l’avrebbe, in un solo passo, traslata in un qualsiasi altrove, uno qualunque, comunque lontano da tutte le ombre che ogni giorno la inseguivano nel tratto che separava l’ufficio dal suo civico. Si slacciò i sandali. Si versò un bicchiere d’acqua gelata. Non aveva alcuna voglia di uscire quella sera. Di sentirsi chiedere cosa avesse. Perché non parlava. Perché non ballava. La sola idea di doversi giustificare le provocava spasmi e nausea. Si spostò sul balcone. Accostò lievi le dita alle ortensie. Sulla poltroncina di vimini affacciata sulle chiome arruffate dei pini, accolse con delizia l’effimero sussulto di un vento che insaporì d’origano e menta la persistenza di un pensiero. Non ricordava nemmeno come ci fosse finita dentro. Al solo sfiorarlo le doleva. Un livido. E’ lì da giorni a maculare di verdastro la superficie nivea dell’epidermide e non ricordi nemmeno come te lo sei procurato. Sospirò. Chiuse gli occhi reclinando la testa all’indietro. Tirò tutto il fiato che poteva e lo rilasciò rilassando lentamente i muscoli. Quando li riaprì, lo sguardo fece una corsa fin dove i filari delle vigne incontravano la ferrovia. La vigna diventò un fresco calice di bianco. La ferrovia un viaggio diretto verso il mare. Nell’apatica metrica del lungo pomeriggio di luglio, scandito dal logorroico ciarlare delle cicale, il suono di un’arpa le illuminò il telefono. Swipe up e le sue parole le rimediarono un tal senso di quiete che sorrise, forse nemmeno se ne avvide, sorrise. Una terzina. Nell’apatica ritmica di quelle ore fiaccate dalla calura, immaginare la sua voce che pronunciava quel che le aveva recapitato, introdusse un inatteso movimento ritmico che la portò davanti allo specchio a prepararsi per la serata. Perché avrebbe potuto rinunciare a qualsiasi cosa, ma non alla sua compagnia. Sapeva che avrebbe potuto divertirsi se solo ne avesse avuto lo spirito. Sapeva che avrebbe potuto restarsene seduta e muta e ricevere tutta la comprensione e il sostegno di cui avesse avuto bisogno. Sapeva che sarebbe andata a finire che sarebbe stata loquace e divertente. Perché lei l’ascoltava senza aver bisogno che le parlasse. Lei riusciva a tirarle fuori la sua parte migliore, quella che “fanculo tutti, voglio essere libera di essere…libera”.
laboratorio di emozioni