SHORT DARK

 Sono giorni che ci penso. Non riesco a fare altro. Ogni forma di distrazione annichilisce davanti a questo ciclopico muro che ricopre ogni altra forma di evasione con la sua fuligginosa ombra. Mi addentro in questa palude di pensieri controversi in cui ogni parola vale il suo significato e il suo contrario. Ogni luce la sua ombra. Ogni immagine il suo riflesso speculare. Ogni colore la sua gradazione di grigio. E io, qui, immobile. Ferma su me stessa. Mentre il cuore impazza. Gira vorticosamente. In preda a mille dubbi. Dervisci roteante nell’implacabile ricerca di quella perfezione mistica che non riesce ancora a cogliere. Esiste? La perfezione, dico: esiste? Ha senso avere questa pretesa? Raggiungere la perfezione. Aiutami a comprendere: cosa sarebbe la perfezione? Come la definisci? Credo che ci siano sempre margini di miglioramento. La perfezione, una mostruosità. Una fiera indomabile. Una figura mitologica. Chimera. Qualcosa che ci obbliga a inseguire traguardi mutevoli. Che si spinge più in là ogni volta che mi illudo di averla conquistata. Tutto questo affannarsi è la vita. La temporale presenza di un corpo nello spazio. La perfezione, incontestabile allineamento di ogni valore che non prevede alcun altro ricalcolo è la fine. Morte. Il punto dal quale non puoi procedere. Raduno le mie innumerevoli incertezze. Le custodisco come il più prezioso dei tesori. Mi renderanno viva. Non sarò serena come vorrei. Appagata come mi vorresti. Ma sono viva. E d’ora in poi vorrei filarmela da questa disumana sovrastruttura culturale che ci assorbe in una disperata ricerca della felicità. Esiste un segreto per rinunciare a questa ingiustificata condanna autoinflitta: accettare me stessa. Così come sono. Con tutto quello che ho. E con tutto quello che non potrò mai avere. E non potrò mai essere. Non è una resa. Anzi. E’ un atto di forza. E’ più semplice dimenarsi, sbraitare, essere arrabbiata con il mondo, fare la guerra, che ritrovarsi nello specchio e concedersi un complimento. “Sono io? Fantastico. Mi piace. Cos’è quell’imperfezione sugli zigomi? E’ mia. (Sorriso). Non è così male. Mi sta bene. Conferisce al mio volto un tocco di unicità”. Ma ci vuole esercizio. Volontà. Duro allenamento. Non si nasce per accettarsi ma per essere accettati. Facciamo di tutto per piacere. E si finisce per perdere di vista l’incarnato della nostra essenza sotto strati di bende cerimoniali. Mummificati in un cliché che ci obblighiamo a ossequiare. Perché l’omologazione è un’armatura. Ci rende forti. Smussa le nostre difficoltà. Ci permette di riconoscerci in uno schema che tutti sembrano apprezzare. Ma, celando le nostre presunte debolezze azzeriamo quei punti di forza custoditi nel grembo di ogni diversità. Essere accettati sacrificando di accettarci per come siamo. Profanare questo dogma richiede energie supplementari perché viviamo sotto l’influenza di questo sortilegio. Non ci accorgiamo di quanto sia deleterio. Passiamo tutto il tempo a cercare di accreditare il nostro nome tra gli ammessi al party esclusivo di chi ci vuol far credere che la vita è come la intendono loro: lustrini, sghignazzi e borsette luccicanti. C’è altro. C’è altro? Giusto? Perché non ho una soluzione a queste domande. Perché ogni domanda, ogni incertezza genera corridoi laterali in un labirinto che si alimenta dei miei stessi dubbi. Questo labirinto sono io. Persa tra i miei pensieri. I pensieri sono fatti di materia imperfetta, che si lascia manipolare dal dubbio. Ogni pensiero ne genera altri. E così che si estenua a dismisura la superficie su cui giace il labirinto nel quale da qualche giorno vago. Ci sono giorni, in questo tormentato tragitto, in cui non ho voglia di parlare con alcuno. Voglio semplicemente restarmene da sola. Accovacciata tra i miei silenzi. Non accade nulla di particolare. Nessun cambiamento. Nessuna nuova fase del decorso. Sarà che ho voglia di vivere. E voglio capire come farlo senza perdermi alcunché. “Tu pensi troppo” mi dice Emidio. “Dovresti lasciarti andare qualche volta. Prendere una decisione di slancio. Senza pensare alle conseguenze. Al vociare di chi ti giudica. Alle occhiate di chi ti compassiona”. Ha ragione Emidio. A volte dovrei lasciare che sia il cuore a guidarmi. La sua cecità. Sei mai stata travolta dall’irrefrenabile desiderio di fare qualcosa? Dovresti farlo, Rita. Dovresti osare di più. Per te stessa. Dovrei smettere di pensare. Smettere di interrogarmi. Sto facendo la cosa giusta? Oppure è del tutto sbagliato. Lo faccio per me stessa? Oppure lo sto facendo per gli altri? Sto cercando un modo per rafforzare la mia autostima o è uno stratagemma per attenuare il disagio di chi mi incontra? Ogni interrogativo scava attorno al mio nome un solco di silenzio. Non ho voglia di parlarne. Voglio restarmene sola. Il telefono squilla. L’applicazione di messaggistica chiede disperate attenzioni. Emidio bussa. Lo fa con tale leggerezza che il suono delle sue nocche sul rovere mi ricorda il saltellare lieve di uno scricciolo. Lo vedo. E’ lì, tra i rami atrofizzati di un ciliegio inamidato da un inverno che finalmente comincia a sgambettare in un gennaio che ci ha ammaliato con l’insolito tepore di assolate giornate. L’estate scorsa è stata la più calda che sia mai stata registrata in Europa. Lo sentivo dalla tv che Emidio stava guardando all’ora di pranzo. La voce familiare del conduttore del tg mi si è infilata nel sogno incerto del dormiveglia. Confine sul quale pensieri lucidi e immagini oniriche si scambiano burlescamente le vesti. E al risveglio hai bisogno di qualche istante in più per comprendere da che parte sei. Sogno. Realtà. E avverti una vertigine. Un senso di smarrimento. Perché in quel sogno ci hai vissuto veramente. Ritrovartene fuori è un feroce espianto che disarciona carezze di cui senti ancora la chiara sensazione di combustione che percorre pelle e desideri. Certe sensazioni mi restano incollate addosso per ore. Anche per un intero giorno. In alcune occasioni riemergono a distanza di giorni. Una privazione che slabbra i contorni della realtà. Nelle sfumature del crepuscolo provo ad origliarne ancora la voce. Quell’incontro deve essere da qualche parte. Vero. Reale. Solo temporaneamente occultato da un velo che segna il sottile confine tra due universi dello stesso spasimo. La voce di Emidio mi solleva. Apro gli occhi. “Ci aspettano. Cosa hai deciso?”. Mi acquieto nel suo sguardo. Bonifica paludi. Spiana ogni controversa parete del mio labirinto. Ci metto un punto. Deciso. Sto facendo la cosa giusta? Oppure è del tutto sbagliato. Lo faccio per me stessa? Oppure lo sto facendo per gli altri? Ogni interrogativo che prima frastornava il mio silenzio è ora un lontano suono attenuato da una sordina. Lo faccio perché voglio ritrovare me stessa nello specchio che mi propone sorrisi smagriti e sguardi consunti. Avrò lo stesso taglio che portavo prima che ti incontrassi.

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