Abbasso il finestrino. C’è, nell’aria, la fraganza umida delle foglie cadute sul viale e un soffio di tralci bruciati. Emidio mi porta in centro. Ci mettiano in macchina mentre il tramonto precoce di questa stagione già si tinge di notte in un intenso rosso novello. Imbocchiamo la provinciale nella luce radente il terreno di un sole che intreccia ombre con i rami più bassi.
Non ho messo l’orologio. Voglio essere felice e il tempo mi rattrista. Scorre impetuoso e non si accorge di me che, a volte, faccio fatica a tenergli il passo. Mi irrita l’indifferenza con la quale mi porta via giornate passate in un letto d’ospedale cercando di attingere avidamente la linfa che possa concedermi un declino più lieve.
C’è gente per strada. Il brusio del marciapiede affollato. Il tintinnare di tazzine e bicchieri dei bar. Trovo il mio viso riflesso nelle vetrine, tra una camicia con baschina in vita e un vestito in tweed nero, viola e bianco. Provo un abito in crêpe satin di seta con stampe floreali, un pantalone in panno di lana a microfantasia, una maglia di lana e alpaca.
Scelgo un completo tweed bordeaux con effetto iridescente.
Lo indosserò per la prima volta in occasione del mio prossimo appuntamento. Mi chiedono perché mi trucchi con cura, perché scelga con attenzione come vestirmi, mi dilunghi sull’accostamento degli accessori, per recarmi in ospedale, per un ciclo di chemio.
Voi che fareste se andaste a trovare qualcuno che può riportarti in vita? Che fareste se vi recaste in un luogo nel quale potrebbero donarvi giorni in più? Non ci andreste con il vestito migliore? Non vi presentereste con un filo di kajal, un’ombra di fard, gli orecchini preferiti, il sorriso migliore?
Farà male, avrò la nausea, qualche linea di febbre. Ma ogni volta che entro in reparto avverto tumulti nel petto. Che emozione. Cammino tra quei corridoi pronta a sacrificare qualche ora del mio tempo per guadagnare imprevedibili momenti di vita a cui non voglio rinunciare.