Mi sveglio. Sulle spalle un maglioncino. È impregnato dell’odore di Emidio. Le maniche incrociate mi avvolgono il collo formando una x sul mio petto. Chino il capo. Con la guancia cerco il tessuto. Quel profumo. La carezza che Emidio ci ha poggiato sopra.
Un plaid sulle gambe. Me lo tiro sul ventre. Il calore mi cinge in un abbraccio. La sera rinfresca. La campagna è indulgente. Ci dispensa dall’afa estiva che ristagna tra le strade infestate dal lamentoso affaticamento dei climatizzatori.
Il libro è stato riposto sul tavolino. E’ aperto, con la copertina rivolta verso l’alto per non perdere il segno. Un uccello con le ali tese, intente a imbrigliare un vento sul quale indugiare qualche istante prima di ricalcolare le coordinate e seguire quella strada invisibile, appena al di sopra dei pini silvestri e degli ulivi. Verso il mare.
Mi protendo in avanti per raccoglierlo. Leggo ancora una volta quei versi. Un’anima senza un corpo in cui dimorare non avrebbe più coscienza di se stessa. Anonima. Persa. Dissolta nella ionosfera. Il suo campo elettrico non avrebbe alcuna sembianza. Nome. Lineamenti. Identità. Fino a quando avrò ospitalità in questa forma voglio fecondare giorni di ineccepibile bellezza.
Nel cielo persistono gli ultimi filamenti di un tramonto violetto. Una musica familiare dal soggiorno, oltre la portafinestra. È quel vecchio disco che comprammo insieme in un polveroso negozietto dell’usato. Un’edizione fuori catalogo. Introvabile. Emidio lo tira fuori per le grandi occasioni. Tra gli arrangiamenti soffusi di un passaggio malinconico di quel pezzo rock, nella voce lasciata sola a sussurrare sulle note lievi di una chitarra distorta, si distinguono i rumori della cucina: una posata contro una bottiglia, una brocca poggiata sul tavolo, acqua dal rubinetto, cassetti che si richiudono. Emidio prepara la cena. Il profumo di un piatto semplice attraversa il soggiorno e viene a dondolarsi in veranda. Zucchine. Carote. Piselli. Spinaci.
Quando la porta finestra si apre, Emidio tiene in una mano un vassoio con due enormi bicchieri d’acqua fresca. Il passato di verdure sarà pronto tra una decina di minuti. Beviamo con calma.
Intanto il buio si è spalmato uniforme nel cielo, rivelando luminescenze. “Curioso che sia l’oscurità a ricordarci che il cielo è colmo di corpi lucenti”. Dice lui. Senza l’oscurità la bellezza delle stelle resterebbe inespressa. Bisogna attraversare il dolore per approdare a un sorriso?
Sono convinta di questo: il dolore è un guscio. Custodisce una felicità inesplorata. A volte, assolutamente insospettabile. Imprevedibile. È proprio questo coglierci del tutto impreparati a trovarcela tra le mani, a renderla superbamente meravigliosa. Il fiore tra le rocce. La sorgente nel deserto. Un faro. La voce di Emidio che rincasando decora il silenzio con il mio nome. Il dolore è robusto. Deve difendere la felicità che si porta dentro da chi ha fretta di arrivare ad un giorno migliore. Sai cosa accadrebbe se riuscissi ad aprire quel guscio prima che si sia compiuto il tempo della maturazione? Il suo frutto sarebbe acerbo. Ti affretteresti a sputarlo via. Ti lascerebbe tra le labbra un fugace sapore zuccherino sovrastato da una persistente acidità. Avresti coscienza di quanto sarebbe potuto diventare buono e morbido. E invece ne hai violato la bellezza. Reciso la grazia. La misericordia che aveva in serbo per te. Il dolore non retrocederà. Si accrescerebbe. Avanzerebbe con il rimorso per esserti fatto avvincere dalla promessa di una rapida guarigione. L’animo resterebbe infetto da tale rimpianto. E un animo ferito lacera il corpo. Anima e corpo, non sono forse elementi di un’entità unica? Un campo elettrico e un corpo conduttore: io. Anima e corpo sono indissolubili. Il corpo è rinvigorisce se racchiude un’anima sublime. L’anima brilla se indossa un corpo accogliente.
Bisogna essere pazienti con il dolore. Lasciare che maturi. Che si spacchi il guscio. Che si lasci incrinare dall’interno da quel frutto che pretende di essere assaporato. Il tempo si compirà. E avrà giornate splendenti per me.
Emidio mi invita ad entrare. La cena è in tavola. Domani andrò a prendermi cura del mio dolore. Mi accompagnerà lui. Come sempre. Appuntamento: ore 10,30. Terzo Piano. Reparto di Ematologia. Mi inoltro in un’altra sera prima della chemio.