La TV è accesa. Solo un lume illumina la stanza. La mamma è stesa sul divano con le gambe su quelle di papà. A quest’ora è sempre così. Sento le voci recitanti degli attori. E’ un film che ho già visto. Ma non mi viene in mente il titolo. Dimentico sempre i titoli. I titoli dei film, di una canzone, di un libro. Ho già tirato fuori le chiavi dallo zainetto, ma non apro. Vorrei non farlo. Vorrei per una volta avere un posto segreto nel quale andare a conservare i miei momenti peggiori. Potermene stare un po’ da sola. E da sola trovare lo spiraglio dal quale far rientrare la luce nelle mie stanze più buie. La mia stanza è in fondo al corridoio e dovrò passare inevitabilmente per il salotto. Inconvenienti dell’ambiente unico. E dovrò sottopormi al terzo grado. Perché è ancora molto presto. Ed è sabato sera. Non si aspettano di vedermi già a casa.
Sarebbe come se li svegliassi di soprassalto nel mezzo della notte. Come se li strappassi ai loro sogni. Catapultandoli in una realtà inattesa. I sogni a volte sono così lucidi che al risveglio non capisci da che parte stai. Resti per un attimo in bilico. Ondeggi su una fune tesa tra il dentro e il fuori. Era meraviglioso il sogno che stavo tessendo quella notte. C’era tutto: il mare, una casa in riva al mare, il patio che si affacciava sul mare, il tramonto sul mare, lui che tornava dal mare. Un allarme. Da dove arriva il suono di un allarme quando sei a chilometri di distanza dal centro abitato? Da dove viene? Qui attorno ci sono solo piccoli villini. Qui attorno è sempre stato tranquillo, nessuno ha mai installato un allarme. Non ci sono ladri. Non se ne sono mai visti. Gli unici colpevoli di furto sono quei bambini che ora giocano a rincorrere un pallone. Si fermano davanti ai muretti a secco lungo i sentieri che dividono i poderi, si issano su quei sassi per raggiungere i rami più alti e arrivare alle ciliegie più rosse. Poi, dopo la scorpacciata di dolcezza, fuggono via in sella alle biciclette nel rumore di ferro che vibra e in una nuvola bianca di polvere. Allora, da dove arriva questo fastidioso acuto che dilaga nel tramonto, mentre lui torna dal mare e da lontano alza la mano per salutarmi? Arriva dal palazzo di fronte. Nessun mare, nessuna casa in riva al mare, nessun patio che si affaccia sul mare, nessun tramonto sul mare, nessuno che torna dal mare. Sono tra le lenzuola bianche del mio letto. Nel mio appartamento. Al centro della città. La costa è lontana.
La luce sul pianerottolo si spegne. Sulle scale si srotola una sottile pellicola argentata. La luna attraverso le finestre del portone. Un telefono che squilla. I passi piccoli di un bambino che corre seguiti da quelli grandi del padre che gli dice che non è più ora di giocare. La sigla del TG. Parole. Ritagli di frasi. Rumori di stoviglie. Ogni suono, ogni rumore, ogni frammento di un qualsiasi discorso si ritrova in questo mondo incantato: le scale. Fuggono dal minuscolo rigo d’aria tra la porta e il pavimento, si infilano nelle serrature e vengono ad animare questo silenzio generoso che quando incontra un suono, una voce, un rumore, non solo gli concede parte del suo spazio ma gli permette anche di riverberare per qualche istante, di restare sospeso nell’aria tra un piano e l’altro. Di attraversare questi luoghi come una cometa. Così è quel riverberare tra le ringhiere e le porte serrate: la coda di una cometa, una scia di luce intensa che leggermente va sfumando e infine si perde.
Qui si incontrano i segreti del palazzo, di chi ci abita, qui le storie si incontrano e si mescolano senza che nessuno se ne accorga. Mi appoggio al muro. Una lastra di luna rimbalzando sull’ultimo scalino mi ricopre di bianco. Resto qui, nella penombra dei miei pensieri. Vorrei tacessero. E invece già so che sul mio volto, in ogni minuscola ruga che segna la mia pelle, mi stanno smascherando. E il mio sarà un vano tentativo. Non riuscirò ad evitare che i miei leggano nel mio sguardo cosa sto provando in questo momento. Sono i miei genitori da quando sono nata. Non ne ho avuto altri. Loro sanno tutto di me. E se non dovessero saperlo lo intuiscono. Gli somiglio tanto. Nei lineamenti e nel carattere. Loro sanno come reagisco davanti ad una difficoltà. Sanno quanto mi emoziono guardando un’opera d’arte. Sanno quanto imbarazzo mi provoca ricevere dei complimenti. Quanto mi fanno arrabbiare le ingiustizie e le persone che credono di saperne più di te. Non c’è scampo.
La luce si riaccende. C’è qualcuno tra le scale. Panico. Chi è? Da dove arriva? Cosa faccio? Non voglio mica farmi trovare per le scale con la faccia sconvolta. Una porta si chiude al piano di sopra. Qualcuno scende a piedi. Perché? Perché a piedi? Perché non prendere l’ascensore? Me ne sarei rimasta immobile. Avrei provato a mimetizzarmi con il beige delle pareti. Nessuno mi avrebbe notata. E invece sento i passi che toccano i primi scalini. Non voglio farmi trovare qui. Non voglio passare per una stupida. Cosa penserebbe, chiunque sia, nel trovarmi ferma davanti alla porta di casa con il viso irrigato dalle lacrime. Prima che arrivi al piano ho già girato la chiave nella serratura. Entro in casa. Sono salva. Il pericolo è alle mie spalle. Il pericolo è davanti a me. Gli occhi di mamma e papà mi fissano. Su di loro, è come se lo vedessi, c’è un grosso punto interrogativo che pulsa curioso.
Alzo la mano davanti a me. Il palmo aperto verso di loro. Chiudo gli occhi. Inclino leggermente il capo in avanti. Una mimica che tradotta in parole vorrebbe dire “per favore, nessuna domanda, lasciatemi andare, lasciatemi tranquilla”. Riaprendo gli occhi, con la mano sempre nella stessa postura mi incammino verso la mia stanza.
Era così semplice? Davvero non hanno cercato di bloccarmi? Davvero hanno capito che non era il caso?